La Cina ha bandito Bitcoin 12 volte negli ultimi 9 anni. Ma il network ha sempre reagito ed è cresciuto. Come? Grazie alla tecnologia: scopriamo Hash Rate e difficulty adjustment.
La Cina ha bandito Bitcoin. Ma questo ormai non fa più notizia.
La stretta annunciata da Pechino il 24 settembre scorso su tutte le attività legate alle criptovalute è il dodicesimo ban annunciato negli ultimi nove anni. Lo ha ricordato uno dei più noti sviluppatori del network, Jameson Lopp, che in un tweet ha riepilogato tutti i tentativi del regime cinese: nei 3 mesi successivi a ogni attacco, il prezzo di Bitcoin è quasi sempre aumentato, con le sole eccezioni del 2013 e del 2018.
La migrazione del mining
Nonostante l’ostilità di Pechino, la tecnologia di Bitcoin non ha subito particolari contraccolpi. Nemmeno quando, l’8 aprile scorso, il governo di Xi Jinping ha annunciato di voler di rendere illegale il mining in tutto il Paese: un’intenzione trasformata in legge il 21 maggio (per gli amanti del cinese, qui il testo originale).
Una mossa, si pensava allora, che avrebbe potuto creare seri problemi alla sicurezza della rete, perché quasi il 50% della sua potenza computazionale proveniva da miner dislocati in Cina.
Nel giro di poche settimane quasi metà dell’energia a disposizione del network è stata spenta, salvo poi essere redistribuita in vari altri Paesi (un processo, come si vedrà più avanti, ancora in corso).
Come ha fatto Bitcoin, quindi, a sostenere un tale impatto? Ha sfruttato la sua tecnologia.
Hash Rate e difficulty adjustment
Hash Rate
Semplifichiamo:
Cosa fanno i miner? Hanno macchine specializzate con le quali cercano una soluzione a un indovinello crittografico: il primo tra loro che la trova guadagna il diritto di scrivere un nuovo blocco nella blockchain e riceve una ricompensa in bitcoin. Per calcolare la soluzione le macchine eseguono funzioni dette di hash: in pratica provano tutte le combinazioni possibili fino al momento in cui un miner trova il valore corretto. Questo procedimento si ripete ogni 10 minuti circa.
Più funzioni di hash (più tentativi) è in grado di svolgere un miner nel minor tempo possibile, più possibilità ha di trovare la soluzione prima degli altri (e incassare quindi la ricompensa in bitcoin). Oggi esistono macchine in grado di eseguire 110 mila miliardi di hash al secondo (110 Th/s).
Da qui deriva l’indicatore dell’Hash Rate: l’unità di misura che indica la capacità computazionale di una macchina che esegue funzioni di hash. L’Hash Rate globale (ovvero la potenza di calcolo a disposizione dell’intero network) è costantemente monitorabile.
Dal grafico si nota in modo evidente che da quando il mining ban è diventato effettivo, l’Hash Rate globale ha subito un fortissimo calo. A luglio, quando i miner cinesi hanno iniziato a dislocare la loro attività in altri paesi, la curva ha ripreso a salire.
Il punto è: cosa comporta per il network una brusca discesa della sua potenza computazionale? Per capirlo serve fare un passo indietro.
Un blocco ogni 10 minuti: la politica monetaria di Bitcoin
Come anticipato, alla blockchain si aggiunge un blocco ogni 10 minuti circa. Per quanto possa sembrare un’informazione secondaria, è in realtà fondamentale. Ogni volta che un miner scrive un nuovo blocco viene remunerato con l’emissione di bitcoin nuovi di zecca (in questo momento sono 6,25, che al prezzo attuale valgono 257mila euro). Questo ritmo determina l’emissione di nuova valuta: è a tutti gli effetti l’espressione tecnica della politica monetaria di Bitcoin.
Se venissero creati più blocchi di quelli previsti verrebbero emesse più monete e si verificherebbe una maggior inflazione; con una minor emissione il problema sarebbe l’opposto: la deflazione.
Se la difficoltà dell’indovinello crittografico da risolvere fosse sempre la stessa, con l’aumentare della potenza di calcolo globale la soluzione si troverebbe in minor tempo, con la conseguenza che i nuovi blocchi verrebbero scritti più velocemente e verrebbero emessi più bitcoin. Allo stesso modo, al calare della potenza di calcolo si scriverebbero meno blocchi e verrebbero messi in circolo meno bitcoin. Verrebbe a mancare l’emissione controllata.
Difficulty adjustment
Per poter mantenere la media di un nuovo blocco ogni 10 minuti, il codice di Bitcoin prevede che la difficoltà dell’indovinello crittografico venga ricalibrata ogni 2016 blocchi (circa 2 settimane). Quando varia la capacità di calcolo, in automatico si aggiusta anche la difficoltà del quesito per mantenere costante nel medio periodo la creazione di nuovi blocchi. Questa funzione è definita difficulty adjustment.
Così, quando la Cina ordina lo spegnimento del 50% dell’Hash Rate globale, ecco che la difficulty crolla, per poi ricominciare a salire gradualmente man mano che la potenza di calcolo viene riattivata.
In questo modo il network è stato in grado di conservare le funzionalità principali, senza andare in grossa difficoltà nonostante il più grande attacco diretto della sua – pur breve – storia.
Ancor più decentralizzazione
La decentralizzazione – l’assenza di un punto singolo di vulnerabilità – costituisse la vera forza difensiva di Bitcoin.
Tra i vari ambiti di questa tecnologia, quello del mining era considerato quello più a rischio, proprio perché larga parte del business era in Cina. Con questa mossa, Pechino sta costringendo i miner a spostarsi in altri paesi, contribuendo paradossalmente alla decentralizzazione del settore.
Di fatto, l’iniziativa cinese si sta rivelando un’ottima notizia per la sicurezza del network.
Gli Usa hanno capito l’errore?
Il 30 settembre, a specifica domanda, il governatore della Federal Reserve Jerome Powell ha risposto di non aver intenzione di bandire le criptovalute negli Usa.
Gli Stati Uniti stanno diventando uno dei paesi industrializzati più attrattivi per il mining: in particolare il Texas vanta un costo dell’energia elettrica tra i più bassi del mondo. Non a caso, diversi miner cinesi vi starebbero spostando le proprie strutture.
Questo articolo è tratto dalla newsletter Bitcoin Train, consultabile qui.