Massimo, 66 anni, milanese, laurea in Filosofia. Prima lavoratore dipendente e poi libero professionista e, infine, imprenditore. Qualche anno fa ha aperto un’agenzia di comunicazione a Milano insieme a una socia. Risponde a qualche nostra domanda e da buon milanese non ha voglia di passare solo il tempo a lamentarsi.
Partiamo dalla burocrazia. Chi fa impresa in Italia la detesta, in tutte le salse. Forse quello che vuole il nostro paese come un coacervo di regolamenti inutili è un luogo comune, però è un luogo comune sensato.
Fare impresa in Italia, si dice spesso, è difficile, una sorta di corsa a ostacoli contro la burocrazia. Questa è una verità sostanziale: le strutture che ti dovrebbero supportare e facilitare il più delle volte rappresentano un ulteriore fattore di complessità: a una domanda si risponde con altre domande, a una richiesta di sostegno si risponde con la richiesta di una garanzia.
Insomma, detta così si evince che in Italia si fa di tutto per ostacolare le imprese.
Questa è un’affermazione in parte vera, ma è anche una comoda leggenda agitata da imprenditori lamentosi. Si può vivere e fare business anche qui.
Anche con questa tassazione?
Certo, la tassazione è alta, quasi improponibile e lo Stato ha sempre ragione anche quando ha manifestamente torto. Il caso degli imprenditori falliti perché lo Stato non paga ma al contempo esige il pagamento delle tasse è paradossale, ma reale.
Più che un paradosso è una folle ingiustizia. C’è poi da considerare che molti lamentano una regolamentazione disordinata, che non include una differenziazione caso per caso.
Esattamente. Non mancano i balzelli e le regole fatte apposta perché siano aggirate: si pensi alle giuste misure riguardo la sicurezza sul lavoro: peccato che siano uguali (o quasi) per chi ha un’impresa edile o una raffineria e chi invece ha un piccolo studio professionale o una libreria dove, alla peggio, si può picchiare un ginocchio nello spigolo di uno scaffale. Allo stesso modo, non c’è differenza nelle regole che deve rispettare un’impresa alle prime armi (una start-up) e quelle a cui è sottoposta la Fiat, quando forse un po’ di proporzionalità avrebbe senso: in particolare il costo del lavoro e le procedure per i licenziamenti, con un eufemismo definite flessibilità, costituiscono un tema dibattuto fino allo sfinimento, ma le soluzioni finora messe in campo non sembrano particolarmente soddisfacenti.
Nemmeno il Job Acts?
Il Job Acts è stato un timido tentativo, non completamente riuscito. La soluzione, del resto, non può essere la cancellazione dei diritti. Il nemico peggiore per ogni imprenditore – diciamolo con franchezza – è l’altro imprenditore, quello che non rispetta le regole (giuste o sbagliate che siano). La competizione è fondamentale per un mercato libero, ma deve essere competizione leale. E questo riguarda l’etica dell’imprenditore prima ancora delle regole dello Stato.
Hai detto che la burocrazia in Italia non deve essere una scusa per lamentarsi, però de facto dalla tua narrazione non emerge un quadro esaltante dell’essere imprenditore.
Nonostante questo, non cambierei la mia condizione di imprenditore – piccolo imprenditore – con quella di dipendente.
Dunque sei stato anche dipendente e puoi fare un confronto tra le due vite.
Sono stato dipendente per soli quattro anni quando, appena laureato, sono stato assunto all’ufficio stampa di una grandissima multinazionale. Quattro anni durissimi, tra noia sconfinata e ritualità all’apparenza insensate. Poi, la libertà: prima imprenditore di me stesso e quindi imprenditore a tutto tondo. E così è iniziata l’era della responsabilità.
Era un’altra Italia, questo va detto.
Certo, l’Italia in cui io ho iniziato a lavorare era un’Italia diversa dall’attuale. Non sono stato un giorno solo senza lavoro e, anche se l’offerta non mi sembrava eccitante e non era quella che desideravo, avevo pure la possibilità di scegliere tra più opzioni. E poi venivo da un periodo e da un mondo nel quale la libertà individuale e la contestazione delle strutture organizzate erano l’aria quotidiana. Cercare quindi un percorso personale, con meno catene possibili era l’obiettivo che avevo ben chiaro in mente. Il contratto di lavoro dipendente era la tagliola che volevo evitare.
Cosa consiglieresti di fare oggi a un giovane? Perché la questione è molto semplice. Ieri essere imprenditori di sé stessi era una scelta, oggi appare come un percorso coartato, l’obbligo di chi non trova alcuna strada. È il destino di molte Partita Iva.
Mi rendo conto che oggi è diverso: la Partita Iva per molti non è una libera scelta ma una necessità, è una libertà che nasconde la precarietà. Ma se oggi il lavoro è fatto così forse bisogna provare a costruire quadri normativi diversi, si possono anche immaginare scenari in cui il “posto fisso” lasci spazio a una maggiore mobilità senza però fare strage dei diritti: correre in bicicletta per 3 euro a consegna senza malattia, senza ferie, senza contributi è schiavismo e non modernità.
Consiglierei a un giovane di intraprendere un percorso come il mio? Certamente sì, se lo intraprendesse come scelta libera e consapevole dei rischi, della fatica, della possibilità di insuccesso. Ci vuole un po’ di coraggio, un po’ di determinazione, qualche capacità. E un po’ di fortuna.